Balena Blu incontra Pietruccio Montalbetti – parte prima

Musicista, scrittore, soprattutto uomo di cultura.

Pietruccio Moltalbetti ha accompagnato più di una generazione, dagli anni ’60 ai giorni nostri, incontrando amici e colleghi di alto lignaggio e grande significato artistico.

B.B. Partiamo dall’inizio, raccontaci com’è avvenuto il tuo incontro con Lucio Battisti.

E’ stato un incontro casuale. Io ai tempi suonavo un po’ la chitarra, e avevo i miei compagni di quartiere Lallo e Pepe. Con loro si suonava seduti su di una panchina vicino a casa nostra, ci siamo un po’ montati la testa, dicevano che eravamo bravi. Erano i tempi della Beat Generation, e il nostro sogno era quello di fare un disco ed avevamo avuto la fortuna di essere stati recensiti assieme ad altri tremila complessi. Io andavo spesso alla Ricordi andavo a chiedere lì, che c’era una persona gentile, (ovviamente non potevo salire ai piani di sopra, dove c’era la discografia) se ci potevano fare un provino, ma senza mai ricevere nessuna risposta positiva.Io però avevo un fratello, Cesare Monti (Montalbetti), che in seguitò diventò il fotografo che fece quasi tutte le copertine di Battisti, (purtroppo scomparso qualche mese fa), che studiava la sera, e di giorno lavorava per la Curia, il caso volle che in quel periodo la Ricordi rifornisse gli organi da chiesa proprio a quella Curia. In quel momento il vescovo di Milano era Monsignor Montini, e mio fratello, lavorava come segretario, e gestiva gli ordini con l’altrettanto segretario di Monsignor Montini, che a sua volta aveva fatto il seminario col parroco della nostra chiesa. Mi venne un barlume, e chiesi a mio fratello di mettere in contatto il nostro parroco con il segretario del Monsignore.

Con la buona parola del parroco, o con la paura che la Curia non le richiedesse più organi per la chiesa, il fato volle che arrivò il benestare di colui che nel futuro prossimo divenne Papa, e noi venimmo convocati per il sospirato provino.                                                                          

Oggi non ho il beneficio della fede, ma allora frequentavo l’oratorio come tutti, poi col tempo, e con gli studi fatti, mi sono fatto un’idea più chiara pur avendo sempre dei grandi dubbi.

Considerando che la Curia fosse un buon cliente, la lettera del Monsignore, convinse l’allora direttore artistico Iller Pattacini, a farci fare il sospirato provino.

Era il 1964, e gli studi erano situati nella sala cinematografica in via Dei Cinquecento, vicino a Piazzale Corvetto a Milano, che durante i giorni della settimana veniva data in uso come studio di registrazione di tutti i dischi importanti del tempo. Era uno studio molto semplice, c’erano quattro tecnici, si toglievano le sedie della parte centrale, e si registrava. Il sabato e la domenica invece riprendeva ad essere un Cinema un cinema, allora si poteva ancora fumare, e c’era sempre quell’odore di fumo…

Arrivai per primo quel lunedì con la mia cinquecento, e le porte erano tutte aperte proprio per far uscire l’odore acre delle sigarette. Appena varcai la soglia, la prima cosa che sentii, era il suono di un pianoforte.                                                                                                                                               

Il salone molto grande era al buio, solo qualche lucernaio ai lati, mi avvicinai alla fonte del suono e vidi seduto al pianoforte un ragazzo con tanti ricci in testa e una bella faccia che stava suonando “Georgia On My Mind” di Ray Charles, mentre aspettava anche lui come me perchè  era arrivato in anticipo.

<< Chi sei tu? >> mi chiede,

“<< Io mi chiamo Pietruccio Montalbetti e suono in un complesso. Tu invece, cosa fai? >> risposi cercando di farmi conoscere.

Noi allora ci chiamavamo GLI SQUALI, nome che ci aveva appioppato un gruppo col quale avevamo fatto un tour.

<< Mah…io suono in un’orchestra con I CAMPIONI, però sono anche un autore, e mi hanno convocato, e sono qui per fargliele sentire. Io mi chiamo Lucio Battisti >>.

Ovviamente allora il suo nome suonava tale e quale un Franco Rossi, Giovanni Bianchi, insomma, un nome comune a tutti gli altri. Sì creò subito una specie di empatia tra noi, un feeling. Rimanemmo lì un po’ a chiacchierare fino all’arrivo dei miei compagni e dei tecnici, poi iniziammo noi con due canzoni, e lui, di fianco a me, mi dava suggerimenti. Lucio Battisti, a differenza della nostra generazione che suonava a spanne, era un buon musicista, e tra una pausa e l’altra mi diceva:  A Pietrù…te faccio setì ne canzone !  

I suoi pezzi però, non erano all’altezza di quelli che fece più avanti, erano davvero mediocri.

Tra me e me pensavo: “Chissà dove va a finire questo qui…”.

Io ascoltavo già la musica inglese, ero più avanti.                                                                                

Comunque finito il nostro provino, mi chiese di fermarmi ancora un po’ per dargli un po’ di coraggio, e se fossi disposto a dargli un passaggio alla pensione dove alloggiava che era distante..in centro, così feci, mentre chiacchierammo ancora un po’ del più e del meno e di musica.

Mi parlò della sua famiglia che però stava a Roma, della mamma che si chiamava Dea, ed il papà Alfiero Battisti, ma Battisti come la mamma, poiché si erano sposati tra cugini.                                           

Mi spiegò che a breve sarebbe partito in tournè con l’ orchestra dei CAMPIONI nel nord Europa , e  infatti da quel giorno non l’ho più visto.

Nel periodo seguente poi la Ricordi ci fece un contratto, e chiedendoci che nome volessimo avere, fui io a decidere per i “Dik Dik”, che è riferito ad una piccola antilope africana.

Il primo disco assieme a Lucio Battisti lo abbiamo fatto dopo Natale, e spiego il perchè…

Il giorno 24 dicembre, mentre attraversavo piazza duomo, mi sento tirare la giacca, mi volto e vedo questo giovane sparuto, un ragazzo con la bella faccia e tanti capelli.

“A Pietrù…te ricordi de mè… sò Lucio…..so qui per suonare”

“Certo che mi ricordo. Ma cosa fai qui da solo, domani è Natale!” risposi stranito, non mi piaceva l’idea che rimanesse solo lontano dalla famiglia.

Insomma tra tira e molla, tra due chiacchiere e una cioccolata calda, lo convinsi di venire a passare il Natale da noi, tornai a casa e raccontai a mia mamma l’incontro che avevo fatto, di quel ragazzo di cui gli avevo parlato tempo prima. Mamma era molto affezionata a me, io sono sempre stato il figlio preferito, ed era contenta qualsiasi cosa le chiedessi.                                                              

 Quella sera andai a sentirlo suonare al Night Club, era lì con i suoi pantaloni neri da smoking e la giacca rossa e la sua Fender, (anch’essa rossa), e mi fermai tutta la serata, accompagnandolo poi nella sua modestissima pensione, di quelle proprio squallide…poveraccio!

Il giorno di Natale si presentò puntuale, mia madre aveva preparato il presepe con le statuine antiche di mia zia Ines, che abitava sopra, e ci aveva messo dei regali per tutti, compreso un paio di guanti di lana per Lucio, lo accolse come fosse un figlio. Sapeva essere anche molto allegro…spiritoso, ci raccontò un po’ della sua tournée e di questi paesi freddi del nord Europa.

Rimase anche la sera per cena, perché da noi si usa finire gli avanzi del pranzo. (CONTINUA)



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