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“Boemia. Il popolo scomparso” – recensione

Boemia. Il popolo scomparso - Dario Colombo
Boemia. Il popolo scomparso – Dario Colombo

“Boemia. Il popolo scomparso” di Dario Colombo è un romanzo, per me,  inaspettatamente storico, ma non solo tale. Struttura per certi versi bipartita e opera corale allo stesso tempo. Copertina grigia e strappata a mo’ di cartone da un lembo, al centro, su sfondo nero,  rappresenta in fermo immagine, un padre  e una figlia che fissano l’obiettivo. O un obiettivo, il loro, quello  di una popolazione ingiustamente trattata o forse protetta e protagonista del volume. Il lato superiore della copertina del testo, come quello inferiore,  presenta un motivo lineare alternato (rosso-grigio) ed i vari riferimenti tecnici, sotto presenti in rosso, ci presentano l’opera. Dario Colombo è un uomo stimato che condivide con un altro famoso esploratore d’altri tempi  il suo cognome.    È un  famoso giornalista di lungo corso, un appassionato di montagna e di storia della Prima guerra mondiale,  autore su questo argomento di numerosi volumi, lavori teatrali e rievocazioni (storiche). Boemia. Il popolo scomparso. Una pagina SCONOSCIUTA di storia ITALIANA è il suo primo romanzo.  

“Questo libro narra le vicende, reali, non organizzate al meglio da chi le ordina,  di un popolo alla ricerca di un’esistenza sicura e decorosa in un momento storico in rapido cambiamento – sottolinea l’autore Dario Colombo.  Ogni guerra, giusta o meno che sia – ma quale guerra può essere considerata giusta?! – rappresenta sempre un evento drammatico che non conosce né vinti, né vincitori, ma spesso è proprio in tempi di barbarie che l’essere umano riesce a dare prova di grande solidarietà verso i propri simili.  L’esodo in Boemia è una pagina SCONOSCIUTA di storia ITALIANA – appunto –  e una esemplificazione che ci dimostra quanto ciò sia vero e quanto l’amore per la vita vada oltre tutto, ogni avvenimento nefasto,  ogni distinzione di razza, lingua e nazionalità.  Boemia è anche la celebrazione di forti legami tra popoli diversi, che anticipano quella che sarebbe diventata, cinquant’anni più tardi, la futura Europa” . La seconda parte del volume, diversamente dalla prima,   viene perlopiù rielaborata e pochi sono gli stralci proposti per non snaturare l’obiettivo della presente recensione: appassionare alla lettura di un’opera.

L’opera in esame rende nota la vicenda fino ad oggi ignota di oltre centomila persone, tra queste nonna Carmela di Colombo alla quale è dedicata,  che,  poco più di un centennio fa, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia (23 maggio 1915, giornata di Pentecoste), sol perché appartenenti a popolazioni di lingua italiana dell’allora Impero Austroungarico che abitavano lungo il confine (trentini, veneti, friulani), furono trasferite forzatamente, ma l’espressione è troppo debole: meglio scrivere rinchiuse a forza sui carri di bestiame o meglio come bestie (come mucche impaurite dal buio che le avvolgeva nel tragitto, si scoprirà leggendo il Prologo) ed “esodate” in massa, partendo dalla “stazione di Riva senza annunciar loro alcuna destinazione”. Su un avviso riferito da Don Vigilio, che l’ha trovato incollato al portone della chiesa,  si legge: «Entro domani mattina alle 8 tutto il paese deve trovarsi alla stazione dei treni giù a Riva. Lasciare libere le bestie, lasciare aperte le porte delle case, portarsi solo una posata, una coperta e un po’ di cibo. Tutto il resto dovrà essere abbandonato. Chi si rifiuta verrà preso in custodia dai gendarmi (…)”. Guardie che – come riferito da Olga e Carmela – già nella notte precedente compiono arresti ai danni di professionisti. Successivamente, il sacerdote e l’ex capo-comune sono affaccendati a comunicare ai compaesani il da farsi per preparare al meglio il viaggio dell’indomani; a calmarli, non appena l’agitazione dovuta alle notizie ricevute prevarrà. 

Come al solito, nella presente recensione, riportiamo uno stralcio significativo: «Il pensiero di uno scherzo di cattivo gusto è svanito quando sono arrivato al portone e ho visto il timbro sul manifesto: era quello dell’Imperial Regio Capitanato distrettuale di Riva, la firma quella del capitano Felice Gabòs. A quel punto non ho capito più niente, ho dovuto appoggiarmi alla porta per trovare la forza di leggere, scusatemi Mario…»

Riportiamo ancora  “Alla fine fu Mario Demadonna che, riprendendo per un momento il vecchio ruolo di capo-comune,   prese a parlare. «Purtroppo quello che temevamo è successo – disse – A questo punto credo, don Vigilio, che la cosa migliore sia quella di dare l’annuncio a tutto il paese perché non si perda tempo e ognuno si prepari al meglio per il viaggio di domani. Si deve capire se ci verranno date delle ricevute per il bestiame, come proteggere tutto quello che lasceremo, insomma i gendarmi dovranno darci qualche spiegazione in più di quello che c’è scritto sull’avviso. A questo penserò io, lei adesso vada a far suonare le campane a martello, raccolga la gente in piazza e spieghi quel poco che sappiamo raccomandando però a tutti la calma.  Il resto lo faremo sapere più avanti. Non sarà cosa facile, lo so, ma non c’è altro da fare».

Adattiamo un nuovo stralcio tratto dal testo: “Nel congedarsi da quell’incontro,  Don Vigilio, fino ad allora rimasto seduto, si alzò lentamente e, cogliendo tutti di sorpresa, fece ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui. Si avvicinò prima al vecchio Demadonna, poi a Olga e a Carmela, infine a Cecilia e abbracciò ognuno con un calore di cui nessuno l’avrebbe fatto capace. Non che fosse un curato insensibile o distaccato, ma rimaneva pur sempre il parroco, autorità ancora più elevata, in tempi come quelli, anche del capo-comune che l’aveva accolto in casa.  Con tutti gli uomini da tempo al fronte, lontani migliaia di chilometri, con la guerra che aveva già iniziato a mietere le prime vittime anche tra i giovani della valle,  era diventato l’unico tramite con le autorità austriache, con il medico, con la banca, oltre che naturalmente col Padreterno: e adesso li abbracciava commosso e preoccupato come avrebbe potuto fare uno dei loro mariti, dei loro fratelli, dei loro fidanzati. Se qualcuna avesse avuto ancora qualche dubbio sull’arrivo della guerra, l’abbraccio di don Vigilio l’aveva definitivamente cancellato”. Continuiamo a seguire l’avvincente narrazione dei fatti non prima di aver fatto presente che il prete ed il suo ruolo  lungimirante e dedito  sono ben caratterizzati. 

Allontanate dalle loro sognate valli  del Tirolo e dai loro paesi di manzoniana memoria, dopo un viaggio inenarrabile e disumano – di tre giorni e tre notti  e soste infinite proprio nel cuore delle notti, si legge nel capitolo 3 – nelle regioni  dell’entroterra dell’Impero, lontane dal fronte, nelle province pianeggianti dell’attuale Repubblica Ceca, soprattutto nel territorio detto al tempo Boemia, ma anche nella bassa Austria e  Moravia.  Tanto vario e nuovo è il paesaggio che scrutano, all’arrivo, meravigliandosi, tutti i protagonisti. Qui tante sfortunate, si trattava in prevalenza di donne, trascorsero oltre tre anni, fino alla fine della Prima guerra mondiale. Le deportate, insieme a bambini e anziani,  erano infatti soprattutto donne, incolpevoli  vittime di una guerra mondiale oramai alle porte nella zona, – l’unica loro colpa era quella di essere suddite dell’impero Austroungarico, ma di madrelingua italiana. Mi sono chiesta se sono state protette o punite.    

Nel giro di poche ore le malcapitate, insieme a bambini ed anziani, furono costrette ad abbandonare case, campi e tutta la loro esistenza, non agiata ma sicuramente dignitosa,  per una destinazione ed un futuro ignoti, al cospetto di lingue e culture, usanze, differenti. Ad esempio, a lungo il tragitto ed a destinazione, non esistono coperte ma solo sacchi, come solo il capo-comune, avendo viaggiato oltre la valle per lavoro, sa spiegare alle figlie. Fu concesso loro di portare solo una posata e una coperta e i viveri necessari per alcuni giorni di viaggio “verso l’ignoto”. La città di destinazione, in realtà, sarà scoperta ad un certo punto della lettura, così come pure al racconto del tragitto viene dato l’ampio spazio di più capitoli. Si tratta di una narrazione sincera e sconcertata da parte della voce narrante mentre i protagonisti provano progressivamente la privazione della loro dignità oltre alla  “Paura, sì, che aveva a poco a poco preso il posto dell’incredulità per quanto stava loro accadendo, e aveva anch’essa un suo afrore ben definito che Cecilia aveva finito per riconoscere (non svelo il perché di questo riconoscimento, ma è raccontato).   E anche la meta, e le stazioni intermedie  vengono  declassate, in quanto un tempo erano calcate da re e imperatori, ma ritorneremo a parlare del momento dell’arrivo del convoglio a destinazione e della elegante e intraprendente e concreta figura guida Cecilia Demadonna. Quest’ultima è anche doppiamente sfortunata. “Mentre agli anziani e alle ragazze più giovani era stato affidato il compito di accudire le improvvisate cucine, nelle case le donne si accingevano allo straziante compito di mettere in salvo – in fretta e furia, senza tempo – le cose più preziose a cui avevano lavorato per anni nelle lunghe giornate d’inverno, quando la neve a volte impediva persino d’uscire”. 

“La maestra, chiusa nella sua camera, aveva iniziato a tirare fuori dalla cassapanca d’abete (quella che doveva) essere la sua dote” per il suo matrimonio con Michele.      Il corredo, scopriamo leggendo,  le viene preparato dalla mamma fino a quando è in vita e terminato dalla ragazza nei fine settimana, tempo libero dalla scuola,  trascorsi insieme a sue coetanee in età da marito con le quali si riuniva per “ ricamare lini e tele di canapa di cui la valle andava fiera”.   Tutto quanto, avvolto in grandi pezze di sacco, di quelle che si usavano per raccogliere le foglie, lo andò a nasconde nelle stalle sotto un abbondante mucchio di fieno perché, il luogo libero dalle vitelle, non avrebbe destato l’interesse di frugare e sarebbe stato ritrovato e ripulito al suo ritorno. Cecilia, però, vuole davvero salvare dell’altro: non vuole abbandonare, quindi le porterà con sé nel viaggio, le  lettere che legge e rilegge tanto da conoscerle a memoria  – conservate in un cassetto in camera;  raggruppate con un nastro di lino che si porta al cuore chiudendo gli occhi quando le tira fuori – che Michele le aveva spedito giornalmente dal fronte raccontandole, severa censura militare permettendo,  “delle notti passate all’addiaccio nelle grandi foreste di betulle della Galizia; dei villaggi abitati da gente poverissima che elemosinava un pezzo di pane al loro passaggio; della durezza al limite della crudeltà degli ufficiali, dei gendarmi,  specie con loro, soldati che morivano per l’imperatore d’Austria ma che avevano l’imperdonabile colpa di essere di lingua italiana”.

Mentre Cecilia è presa da questi pensieri che non saranno i suoi unici pensieri sentimentali,  ma per questi ci vorrà tempo ed un incontro inaspettato, un coro di voci concitate la riporta alla realtà. Mette le lettere nella sacca che aveva preparato per il viaggio e si affretta verso l’ingresso dove, nel frattempo, il tono delle voci diventa ancora più agitato.  “Eccola – gridò Cecilia andandole incontro e domandandole se avesse sentito che i furbi gendarmi, ingannandolo e facendogli pensare a una guerra lampo che tale non potrà essere, hanno  detto a suo padre che si starà via solo pochi giorni “per farci lasciare ogni cosa qui, ogni alimento autoprodotto e pesante, così si prenderanno tutto loro” – aggiunse Carmela. “Ma per chi ci hanno preso? Se ci fanno andar via perché scoppierà la guerra pensano forse che durerà solo pochi giorni? O ci rimandano qui sotto le bombe e con i soldati in casa?»   Caterina mormora che è una tragedia e che suo nonno non vuole partire, dice che vuol morire, che è meglio morire qui nel suo paese,  e se dovrà essere sotto le bombe italiane pazienza, che in qualche paese foresto”. Sopraggiunto il capo-comune, già dal suo sguardo comunica che severamente i gendarmi, ricevuti ordini tassativi, non svelano di più oltre a quanto riportato nell’avviso e, perciò, si ribadisce la necessità per gli abitanti – come ad esempio sta facendo il fabbro –  di prepararsi al meglio ad affrontare il viaggio, mettendo in salvo – ad es. in una buca scavata nel prato dietro casa –  tutto ciò che è possibile salvare, sotterrando, nell’esempio gli arnesi del suo mestiere. E tutti si avviano verso casa ad escogitare, mentre calano le prime ombre del crepuscolo ed avvolgono le dimore, ma il silenzio che di solito le accompagnava aveva lasciato il posto ad inediti rumori e soprattutto a grida di bambini Che, interrogandosi su quanto stava succedendo,  si rincorrevano lungo le strette vie della contrada già buia fiutando quanto i grandi cercavano di nascondere loro.  “Che attraverso le finestre socchiuse spiavano non visti nelle stanze un tempo ordinate, dove ora mamme, sorelle, nonne, zie compivano identici gesti che annunciavano l’imminente partenza, in un disordine che sapeva di dolore. Piegano una sola coperta, scelgono una sola camicia, mettono da parte una sola posata obbedendo all’ordine del capitano distrettuale austriaco gridato dal manifesto affisso al portone della chiesa. Ridevano, i ragazzini, eccitati, stupiti dall’essere ancora liberi nell’ora che di solito è quella della cena e poi del sonno.  Non sapendo, i bambini, cosa siano le preoccupazioni, devono solo cibarsi e bere, leggeremo.

“Identica agitazione scorreva nel tepore delle stalle, dove vitelle, muli, cavalli sembravano chiedersi la ragione delle inattese cure che a quell’ora venivano rivolte loro come nemmeno il giorno di san Michele, quando lavati, strigliati e con le cavezze di cuoio lucido venivano fatti sfilare sul grande prato dietro la chiesa dopo i lunghi mesi trascorsi in montagna. Ma non c’erano questa volta né il desiderio di ben figurare, né l’orgoglio per il risultato di tanto lavoro. Nei gesti dolenti degli uomini e delle donne, quella notte, c’era solo la tristezza di chi deve abbandonare a un destino ignoto uno di famiglia. Perché questo erano quelle vitelle, quei muli e quei cavalli: gente di famiglia che – tutti ne erano certi – non avrebbero rivisto mai più”.

Il viaggio diventa via via inenarrabile e pazientemente subito per le condizioni igieniche sempre più precarie e fomenta in Cecilia prima paura e poi incredulità per quanto stava accadendo e infine l’afrore alla ragazza diventa riconoscibile in quanto la giovane una volta, in maniera improvvisa e indimenticabile, l’aveva avvertito mentre subiva uno, scampato, tentativo di violenza – scampato grazie all’amato Michele. La situazione fa sì che ella non riconosca più gli altri presenti nel suo vagone, perché, come in altre calamità, finiscono di avere paura e si abbandonano nell’ambiente. Dopo che il dolore e la disperazione per anni di lavoro andati in fumo svanisce o rimane confinata nelle case. Ma adesso il carro si era aperto e Cecilia capì che era nuovamente arrivato il suo momento, che come alla partenza, anche adesso doveva impedire che la confusione e lo smarrimento per la sosta improvvisa si trasformassero in panico e il panico in tragedia disumana. 

Si assiste all’inatteso e per certi versi stravagante spettacolo di una folla triste, malconcia, aggrappata a pochi e poveri bagagli, il cui scorrere lento e impaurito veniva ad un tratto interrotto da un plotone ordinato che in fila per due procedeva come in una solenne processione, preceduto dalla figura severa, ma a suo modo elegante e inappuntabile, di una giovane donna che sembrava aver preso il posto del capo-comune e del parroco e persino dei gendarmi. Quelle indicazioni vennero seguite non alla lettera da altri gruppi e meravigliarono anche gli austriaci dispiegandosi similmente ad una processione, quella che non si era potuta svolgere nella valle e che conduce a capannoni che in passato erano serviti come depositi dei treni.   Il pavimento era stato ricoperto di paglia e ai lati erano stati messe delle stufe di ghisa e lì tutti trascorreranno una notte senza poter uscire (ma non ne hanno né la forza né la voglia). Hanno modo di rifocillarsi e di riposarsi e poco prima  Cecilia ha modo di prendere informazioni, che non sa se svelare subito agli altri, sui piani dei gendarmi ai loro danni, la destinazione: Boemia: «Sono solo voci che circolano in questi giorni qui a Innsbruck – disse – ma si dà per certo che verrete portati in Boemia, lontani dal confine con l’Italia dove la guerra è ormai questione di ore. Là dovrebbero sistemarvi nei distretti attorno a Praga in case e fattorie.  Non è una brutta zona, la gente è accogliente, ma naturalmente i primi tempi saranno duri.  Per voi ma anche per loro. In fondo la guerra c’è anche per i boemi, gli uomini sono tutti al fronte, insomma non è il momento migliore per arrivare.» Riesce, dunque, a intrattenere una conversazione con una nobildonna, Emma,  che parla italiano e  che si è messa al servizio dei profughi, come Cecilia, attraverso la proposta di un brodo che, inizialmente, tutti credono avvelenato. La conversante nota le doti: «Davvero – riprese infatti la donna – alla stazione avete fatto una cosa bellissima, visto quello che state passando. Ma, ditemi: voi cosa facevate prima che accadesse tutto questo?» «Faccio la maestra e molti dei bambini che vedete sono miei alunni. – rispose prendendo un po’ di coraggio – Forse è per questo che riesco a farmi ascoltare…» «Mein Gott, cara amica, occorre ben altro che fare la maestra per farsi ascoltare e obbedire come avete fatto voi oggi», disse sorridendo Frau Hinterseer. «Si vede che lei ha ben altra stoffa, se lo lasci dire”. E qui viene incastonata una nuova lettera di Michele e non solo quella. E poi continua il viaggio verso l’entroterra. “Nessuno, a eccezione di Cecilia e di suo padre, osava immaginare che il tormento e l’angoscia di quel viaggio durato sei giorni stessero per terminare sotto le volte di una delle grandi stazioni d’Europa, in quella Praga dalle cupole d’oro che, da decenni, era culla di poeti e letterati, filosofi e artisti di ogni genere, rivaleggiando con Vienna nel ruolo di grande capitale della cultura mitteleuropea di sveviana memoria e di inizio Novecento. 

L’aiuto della nobildonna soccorritrice, ma non solo il suo dopo alcuni tentennamenti, scopriranno alcuni,  a sorpresa,  si manifesterà nelle sembianze di altri protettori rinomati della famiglia Demadonna e, mentre in una dimora personaggi discutono su una prossima accoglienza con toni più o meno propositivi, Cecilia cerca di rimanere insieme ai suoi cari, evitando di perderli di vista come capita ad altri nuclei famigliari cui tocca la stessa sorte del viaggio. Ma non capiterà sempre così, ad un certo punto, all’arrivo, Cecilia sarà persa di vista e le sue amiche si chiederanno perché: scopriranno la verità e il distacco sarà momentaneo. Cecilia, e non solo lei, torneranno ad essere punti di riferimento per la comunità dei profughi. Determinante la caratterizzazione e l’apporto di Pavel alla decisione di ospitare i Demadonna e ad ascoltare le pregresse vicende degli ospiti dalla voce del capo-comune e degli altri ospiti. Il racconto non si interrompe, anzi, narra la passione per la lettura di Olga, vengono citate le sue letture preferite e sono colte come Guerra e Pace – quasi una premonizione di quello che sarebbe accaduto e ricordo della vita felice altrove  – libri prestatele da Cecilia, da portare in viaggio. “Erano quelli della lettura i momenti in cui ringraziava d’esser nata entro i confini del grande impero asburgico. Che forse non aveva un particolare riguardo per i sudditi di lingua italiana, ma garantiva a tutti un’istruzione obbligatoria: saper leggere, scrivere e far di conto”.

Intanto in Boemia, accolti da visi stranamente conosciuti, Cecilia e le sue amiche e gli altri, devono fare i conti con l’adattamento: “Mi sono un po’ informata da amici di Praga e ho saputo che vi sistemeranno in alcuni paesi nel distretto della capitale: Ptice, Novy Knin, Kladno, Busterhad… Insomma non sarete tutti assieme, ma nemmeno tanto lontani gli uni dagli altri. Vi alloggeranno in fattorie o presso famiglie, poi col tempo vi troveranno anche un lavoro così vi potrete mantenere. I primi tempi non saranno facili: la lingua, le diverse abitudini, il clima. L’importante è non scoraggiarsi, poi vedrai che le cose si sistemeranno. Siamo in guerra e anche qui non se la passano benissimo e cercheranno anche di opporsi. Ma sono brava gente, proprio come voi: andrete d’accordo.»  Ed ecco un’altra lettera di Michele e quelle passate sfiorate solo così sentendolo vicino. Per un momento Cecilia credette, il padre se ne rese conto e così anche lui desiderava quando riceveva più notizie sconfortanti della figlia dai giornali prima che venissero censurati ai profughi,  che tutto quello che era avvenuto in quei mesi e negli ultimi giorni fosse un sogno: che non era mai scoppiata la guerra, che Michele non era mai partito per il fronte, che lei non aveva dovuto lasciare la valle ed essere lì, alla stazione di Praga, in Boemia. E, poco prima, ripensando a lui ed alle sue difficoltà sulle quali si interrogava, che ora erano anche della ragazza e dei compaesani, il desiderio di Cecilia di scovare una fontana qualsiasi ovunque sia,  vicino alla stazione, dove che sgorghasse acqua “fresca con cui bagnarsi almeno il viso e le braccia, con cui dissetarsi e riempire la borraccetta di pioppo con cui erano partiti. E ancora il pensiero alle lettere di Michele, l’ultima ricevuta una settimana prima, che non le possono ancora arrivare perché non ha un indirizzo da comunicargli e lo sfiorare l’incarto di quelle già ricevute. Cecilia qui raduna i compaesani, lì rassicura sull’aiuto che darà poi. “Non gli darò la soddisfazione di vedermi uscire di casa triste e dimessa”, aveva pensato quando i gendarmi austriaci erano venuti per l’ultima volta a intimar loro di partire, martellando la porta con il calcio del fucile e la punta degli scarponi chiodati. Era uscita di casa al braccio del padre e tenendo per mano la piccola Lina: e anche la marea delle uniformi nere dei gendarmi si era aperta rispettosa e quasi deferente alla vista della maestra Cecilia elegante e austera come nel giorno  in cui    – a fine anno scolastico – consegnava le pagelle ai suoi piccoli alunni e ai loro genitori”.  Non smetterà di insegnare, ingegnandosi sempre.

“Il buio portò con sé il ricordo. (…) Ma adesso [Cecilia] era lì, accovacciata sulla paglia maleodorante.  (…) La disperata confusione delle prime ore di viaggio aveva lasciato il posto a una rassegnata stanchezza che con il buio era diventata sonno per i più piccoli, preghiere recitate a labbra chiuse dalle donne, silenzio dolente degli anziani (…) Il treno, con i suoi sessanta vagoni, si inerpicava lento tra le pareti a strapiombo che portavano al Brennero, destinazione Boemia”.  Nessuno ancora conosce la destinazione, si pensa a Trento.

Il primo capitolo non si apre con il racconto dell’arrivo del convoglio alla destinazione sconosciuta, ma con il sentore, avvertito il giorno precedente, dello scoppio della guerra:  osservato da due fanciulle guardando verso creste dei monti, immagine nostalgica di manzoniana memoria,  calpestate da file di uomini armati paragonati aspramente a formiche che preparano il campo di battaglia compiendo passi e gesti assai meno graziosi di quelli di coloro che, negli stessi paesaggi, pur con affaticata grazia, vi salivano per segare il fieno magro, aggrappati con i ramponi alle discese d’erba verticali. Espresso da Olga, un’amica quasi coetanea alla quale Cecilia, malgrado questo particolare, fa quasi da sorella maggiore dopo la dipartita della mamma della ragazza. “Olga a volte stupiva Cecilia con riflessioni e pensieri che la giovane maestra ascoltava in silenzio conservandoli dentro di sé come quelli che un tempo le dispensava sua madre. (…)”. L’aspettava tutti i giorni all’uscita della scuola e il breve tratto di strada verso casa era il momento in cui si scambiavano commenti e talvolta segreti destinati a rinsaldare per sempre quella che era qualcosa di più di una semplice amicizia. C’è lo spazio narrativo per ricordare l’Amore di Michele e le vicissitudini che lo portano ad allontanarsi, dalla stessa stazione, da Cecilia senza nemmeno il tempo di un saluto.  La maestra e il ragazzo mantengono uno scambio epistolare che, tra gli incalzi di Olga, conferma il sentore detto, ma che tarda ad essere ammesso da Cecilia, per proteggere l’amica, più schietta,  dalla comune paura della impellente  tragedia.  Anche il soldato, pur sincero nello scrivere, tranquillizza l’amata attraverso il loro scambio epistolare,  affermando  di godere della buona compagnia di pochi amici della sua zona d’origine che gli consentono di parlare dei loro paesi.  Cecilia, come confessa all’amica Olga,  crede tuttavia, a buon ragione purtroppo, che il fidanzato debba affrontare condizioni disumane in trincea. Non lo penserà per l’unica volta all’interno del romanzo. Un accenno alla figura della madre, morta, la cui presenza è nominata diverse volte perché la donna è capace di creare nei protagonisti situazioni psico-emotive differenti dalle attuali.  “Quando arrivarono nei pressi dell’abitazione di Cecilia, affacciata con il suo bel portale di granito sulla piazza del paese, Olga non poté trattenersi dal prenderle con dolcezza il viso tra le sue piccole mani segnate dal lavoro nei campi e sussurrarle con inattesa dolcezza (rassicurazioni sulla sorte di Michele, uomo forzuto con la testa sulle spalle e ragguagli per mantenere la salute sciupata e per poter continuare ad essere punto di riferimento per i suoi cari e per i suoi alunni).  Si noti il divario tra la tiratura della dimora di Cecilia e le piccole mani segnate dal lavoro di Cecilia ed altri particolari contrastanti citati in successivi punti del romanzo così come la presenza di parole ed espressioni dialettali significative per rafforzare quanto si vuole esprimere. Queste ultime sono hanno sempre la “traduzione a fronte”.

“Con la stessa inattesa rapidità con cui aveva manifestato quel gesto di tenerezza,  (Olga) voltò le spalle (a Cecilia) e si diresse a passo veloce giù per la contrada, ma non prima d’averle gridato senza voltarsi: «L’è propi vera che i sas i va drè a la marogna!».  Era proprio vero: dopo una disgrazia ne arrivava subito un’altra”. La narrazione continua e la tragedia si appresta.  Non prima di aver letto la crescente preoccupazione e della censura giornalistica, che è un peccato svelare,  nelle conversazioni avvenute tra Cecilia e suo padre; tra i due e l’altra componente della famiglia, la piccola e affettuosa Lina,  ma soprattutto l’unico personaggio, finora, a comunicare l’imminente verità.  “Tra  Mario Demadonna, per oltre vent’anni capo-comune del paese e perciò uomo di mondo, era senza dubbio uno dei personaggi più in vista della valle. Commerciante di legname, così come lo erano stati prima di lui suo padre e prima ancora suo nonno (e) don Vi(r)gilio” che, bussando con quattro colpi sulla porta della famiglia –  “Quelli necessari perché Mario Demadonna raggiungesse l’ingresso chiedendosi chi fosse che bussava con tanta insistenza” solo qualche ora dopo l’alba” – e tergiversando, annuncia: “E’ la guerra, ci siamo”. La lettera r tra parentesi al centro del nome del prelato evidenzia come questi, secondo chi scrive non a caso portando tale nome,  sia uno dei due personaggi cicerone, già prima della partenza in modi svelati a tempo, come già riportato all’interno.  “In quel momento fece irruzione in casa la piccola Lina, eccitata come l’avevano vista poche altre volte. «Papà, Cecilia: ma è vero che viene la guerra?», gridò fermandosi al centro della cucina. Il primo a risponderle fu suo padre: «Lina, ti sembra possibile che venga la guerra con tutta la gente nelle case?». «Ma dicono che se viene la guerra ci mandano via.» «E dove vuoi che ci mandino? – intervenne Cecilia – Non vedi in quanti siamo nei paesi? Magari ci manderanno qualche giorno a Riva…» «E se ci manderanno via potrò portare la culla con la mia bambola?» «Certo che sì.» «E le bestie? Io non voglio lasciar qui da sola la Popa e le due vitelle! Papà dimmi che possiamo portarle!» «Adesso basta, pensiamo alla cena e mettiamoci a tavola. Non ci sarà la guerra, non dovremo partire e la Popa resterà con noi», chiuse definitivamente il discorso Mario Demadonna. Ma sapeva che non sarebbe stato così”.     
“Nessuna fiatò, si leggerà anche,  e in quel momento il padre di Cecilia che aveva assistito alla scena poco distante, capì che sarebbero state le donne della valle – sua figlia certo, ma anche le altre – a trovare la via d’uscita da quella tragedia. Se mai ce ne sarebbe stata una”.

Dopo un impatto  traumatico con le popolazioni autoctone, comincia un percorso umano e di comunità, d’integrazione, che scelgo di far scoprire al lettore e  che lascerà una ricca eredità di amicizie,  forti legami,   in qualche caso anche nozze, che sopravvivranno per generazioni. 

 Il romanzo rivive e ripercorre, ricostruisce storiograficamente,  la straordinaria avventura di queste genti raccontando le vicissitudini di un gruppo di donne guidate da due figure emblematiche – davvero vissute – di una maestra e di un parroco, che pure a un tratto pare vogliano abbandonare i compaesani, ma non sarà ovviamente così. Anche la docente pare volerli abbandonare ma lo stesso vale per lei: non sarà così (è sempre la ragazza, pur autorevole, che si chiede perché all’arrivo a destinazione, non può condividere completamente la sorte con i compaesani, ma non svelo altro). L’operato di queste due figure è volto agli stessi intenti ma entrambi ne sono all’oscuro. Trovano sul loro cammino le stesse persone che li metteranno in comunicazione.  La chiesa della Madonna Nera sarà luogo di incontro e confronto per tutta la gente. Attingendo a un’imponente archivio di lettere, diari e documenti ufficiali, la narrazione restituisce uno spaccato, un quadro inedito di un dramma inimmaginabile, per certi versi assimilabile ad alcuni odierni. L’integrazione e l’emancipazione, superando indicibili difficoltà fino al momento del rientro a casa, riguardano soprattutto la figura femminile delocalizzata senza mariti perché al fronte che, costretta dagli eventi bellicosi deve e riesce a  rivestire tutti i ruoli sociali indispensabili: capofamiglia, lavoratrice, amministratrice e madre. Deve e riesce a crescere i figli e a mantenere vivi i legami delle comunità, conquistandosi un ruolo nuovo.

“Naturalmente il romanzo s’è preso alcune libertà. Per esempio quella di attribuire ai personaggi nomi di fantasia.  O di distribuire le famiglie in villaggi che non erano quelli della storia. E altre ancora.  Ma – come abbiamo accennato – una maestra  straordinaria che ha fatto iniziare regolarmente ai profughi bambini l’anno scolastico come se niente fosse (e molto altro ancora) è esistita davvero.  Un parroco che s’è assunto le vesti di capo-comune, amministratore e guida non solo spirituale è esistito davvero. Un barone che ha ospitato una delle famiglie di profughi è esistito davvero. L’incontro delle donne trentine con Lenin c’è stato davvero. Come pure è vero lo stratagemma ideato per far rientrare dal fronte tutti gli uomini della valle anticipando quella che anni dopo sarebbe divenuta nota come la “Lista di Schindler”. Ed anche un cane enorme che ogni sera accompagnava a casa, nella notte, la giovane operaia di un mulino non è frutto della fantasia. (…) L’unica libertà che il romanzo non poteva prendersi – ovviamente, come per altre situazioni storiche – era quella di dimenticare”.

Maria Stella Falco



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